Cristianità,
n. 327 gennaio-febbraio 2005, pp. 7
- 11
«After the ball»: un progetto
«gay» dopo il baccanale
I. La Rivoluzione sessuale ha contribuito, con altre concause, alla crisi dell’istituzione
familiare, e questa crisi non è a sua volta estranea all’emergere di
problemi connessi con l’omosessualità, definita come una preferenza sessuale
predominante e persistente per persone dello stesso sesso.
Una componente tanto chiassosa quanto minoritaria del mondo
omosessuale è costituita dagli attivisti gay, che si prefiggono
l’accettazione, da parte della società, dell’omosessualità come variante
«naturale» dell’orientamento sessuale umano.
È importante
distinguere fra omosessuali e gay: il termine
«omosessualità » indica una tendenza o inclinazione sessuale, mentre il termine
gay indica un’identità sociopolitica. Non
tutte le persone con inclinazione omosessuale s’identificano nello stile di
vita gay, anzi: la maggioranza di loro non è orgogliosa di tale
inclinazione, non considera «normale» la propria omosessualità e non teorizza
il riconoscimento dello stile di vita gay come positivo
per sé e per la società (1).
II. Gli attivisti gay
si prefiggono una vera e propria Rivoluzione omosessualista
della società? Essi lo negano, bollando questa ipotesi
come espressione di complottiamo paranoico. Un interessante
saggio, scritto ormai poco più di quindici anni fa ma ancora attuale, sembra però
confermare questa ipotesi. L’opera, intitolata After the
ball. How America will conquer its fear & hatred of Gays in the 90’s, «Dopo il ballo.
Come l’America sconfiggerà
la sua paura e il suo odio verso i gay negli
anni 1990» (2), è stata pubblicata nel 1989 da Marshall
Kirk, «ricercatore in neuropsichiatria, logico- matematico
e poeta» (p. I), e da Hunter Madsen, «esperto
di tattiche di persuasione pubblica e social marketing» (ibidem). Il
«ballo» a cui gli autori fanno riferimento è il baccanale provocatorio
e oppositivo innescato dalla Rivoluzione gay degli anni 1970 e 1980.
Si tratta di
una lettura decisamente sorprendente: nel caso non si voglia
credere al complotto o a un’efficacia magica della strategia di «persuasione
pubblica» e di «social marketing» esposta nell’opera, bisogna
riconoscere agli autori un’incredibile capacità previsionale;
vi si trova infatti un’accurata descrizione degli obiettivi e dei metodi dell’attuale
movimento gay.
«The gay revolution has failed», «La rivoluzione gay è
fallita» (p. XV). Secondo gli autori il movimento gay
degli anni 1970 e 1980, ispirandosi al modello marxista (3), ha
collezionato una serie di fallimenti che hanno reso la comunità gay ancor
più isolata e malvista dal resto della popolazione.
Gli anni
1990 presentano tuttavia una nuova possibilità per rilanciare la Rivoluzione gay. Cosa rende questi anni particolarmente
favorevoli a essa? Gli autori lo spiegano senza pudore:
«Per quanto cinico possa sembrare, l’AIDS ci dà una
possibilità, benché piccola, di affermarci come una minoranza vittimizzata che
merita legittimamente l’attenzione e la protezione dell’America» (p.
XXVII). Kirk e Madsen
intendono analizzare il fallimento e proporre strumenti concreti per sfruttare la
nuova possibilità offerta dall’AIDS al movimento gay:
«Pensiamo a una strategia accurata e potente quanto
quella che i gay sono accusati dai loro nemici di perseguire — o,
se preferite, a un piano altrettanto manipolatorio
quanto quello sviluppato dai nostri stessi nemici. [...] I gay devono
lanciare una campagna sul larga scala — che noi
abbiamo chiamato Waging Peace
campaign — per raggiungere gli eterosessuali attraverso
i media commerciali. Stiamo parlando di propaganda» (p. 160). La
denominazione della campagna è costruita sulla base di
un gioco di parole, dal momento che waging
war significa «muovere guerra», e il nemico individuato è il «bigottismo
antigay» (p. 134).
III. Nella prima parte dell’opera gli autori
analizzano i «bottoni sbagliati » (p. 134) premuti dal movimento gay nei due decenni precedenti.
1. «La
discussione, o l’aumento della consapevolezza» (p. 136). Questa tattica non
ha funzionato, secondo Kirk e Madsen,
perché fondata sul presupposto erroneo che il pregiudizio — tale sarebbe il «bigottismo
antigay» — non è una credenza che si possa
confutare argomentando, ma un sentimento da affrontare come tale.
2. «Il
combattimento, o l’assalto alle barricate» (p. 140). Questa tattica ha
avuto, secondo gli autori, l’effetto di suscitare irritazione e fastidio negli
eterosessuali; pertanto è da ritenersi dannosa.
3. «Lo shock,
o l’inversione di genere» (p. 144). Il riferimento in questo caso è alle
marce dell’orgoglio gay, che in genere hanno lo
scopo di affermare in modo provocatorio e bizzarro la cultura gay come «diversa».
Poiché l’obiettivo è quello di cambiare la mentalità della società, tali
manifestazioni di affermazione della «diversità» sono
controproducenti. Invece, si deve «[...] per prima
cosa mettere un piede nella porta, rendendosi il più simile possibile
a loro; dopo, e solamente dopo — quando l’unica tua piccola differenza è stata
accettata — puoi iniziare a imporre altre tue caratteristiche, una alla volta»
(p. 146).
A queste tre
tattiche gli autori ne contrappongono altre tre, tre «bottoni
giusti» (p. 147) da premere per «fermare, far deragliare o
far marciare all’indietro il motore del pregiudizio» (ibidem).
1. «La desensibilizzazione». Come tutti i meccanismi di difesa
psicofisiologici, spiegano gli autori, anche il
pregiudizio antigay può diminuire con l’esposizione prolungata all’oggetto
percepito come minaccioso (4). Bisogna quindi «inondare» (p. 149) la
società di messaggi omosessuali per «desensibilizzare» (ibidem) la società
stessa nei confronti della minaccia omosessuale.
2. «Il
grippaggio» (p. 150). Questa tattica consiste nel presentare messaggi che creino una dissonanza cognitiva (5) nei bigotti antigay,
per esempio mostrando a soggetti che rifiutano l’omosessualità per motivi religiosi
come l’odio e la discriminazione non siano «cristiani»; oppure mostrando le
terribili sofferenze provocate agli omosessuali dalla crudeltà omofobica (6).
3. «La
conversione» (p. 153). Con questa tecnica s’intende suscitare sentimenti
uguali e contrari rispetto a quelli del bigottismo antigay, ossia
infondere nella popolazione sentimenti positivi nei
confronti degli omosessuali e negativi nei confronti dei bigotti antigay.
Gli autori
indicano poi «otto principi pratici» (p. 172) per la persuasione della
popolazione tramite i mass media.
1. «Non
esprimere semplicemente te stesso: comunica!» (p. 173). L’espressione di sé
può avere un effetto liberante, ma è scarsamente efficace. Molto meglio
comunicare: «[...] gli eterosessuali
devono essere aiutati a credere che tu e loro parlate lo stesso linguaggio» (p.
174).
2. «Non
curarti dei salvati e dei dannati: rivolgiti agli scettici» (p. 175). Gli autori individuano tre gruppi di persone divisi in base al loro
atteggiamento nei confronti del movimento gay: gli «intransigenti» (ibidem),
stimati in circa il 30/35% della popolazione, gli «amici» (ibidem),
circa il 25/30%, e gli «scettici ambivalenti» (ibidem), circa il 35/45%;
questi ultimi rappresentano il target designato: a loro bisogna dedicare
gli sforzi maggiori applicando le tecniche di desensibilizzazione
con quelli meno favorevoli e di blocco e conversione con i più favorevoli.
Le altre due categorie, i «dannati» e i «salvati», vanno
rispettivamente «silenziati» (p. 176) e «mobilitati» (p. 177).
3. «Parla
continuamente» (ibidem). Il metodo migliore per desensibilizzare gli
«scettici ambivalenti» sta nel «[...] parlare dell’omosessualità finché l’argomento non
sia diventato assolutamente noioso» (p. 178) (7). Inoltre, è bene dare
spazio ai teologi del dissenso perché forniscano argomenti religiosi alla campagna
contro il bigottismo antigay (8).
4. «Mantieni
centrato il messaggio: sei un omosessuale, non una balena» (p. 180). Gli
attivisti sono tenuti a parlare esclusivamente dell’omosessualità; associare
questo messaggio ad altri può essere controproducente per vari motivi: le organizzazioni
che si battono per cause umanitarie o ambientalistiche
sono generalmente impopolari, più piccole dei gruppi gay e solitamente si
occupano di argomenti remoti ed effimeri, come — per
esempio — il destino delle balene; inoltre si rischia di confondere le idee
rispetto al target. Molto meglio rimanere centrati esclusivamente
sull’omosessualità.
5. «Ritrai
i gay come vittime, non come provocatori
aggressivi» (p. 180). Per stimolare la compassione i gay devono
essere presentati come vittime a. delle
circostanze — perciò, dicono gli autori, «[...]
sebbene l’orientamento sessuale sembri il prodotto
di complesse interazioni fra predisposizioni innate e fattori ambientali nel
corso dell’infanzia e della prima adolescenza» (p. 184) (9),
l’omosessualità dev’essere presentata come innata — e
b. del pregiudizio, che dev’essere
indicato come la causa di ogni loro sofferenza.
6. «Da’
ai potenziali protettori una giusta causa» (p. 187). Ossia:
non bisogna chiedere appoggio per l’omosessualità, ma contro la
discriminazione.
7. «Fa’
che i gay sembrino buoni » (ibidem).
I gay devono essere presentati non solo come membri a tutti gli effetti
della società, ma addirittura come «pilastri» (p. 188) di essa. Un ottimo modo per farlo sta nel presentare una serie
di personaggi storici famosi, noti per il loro
contributo all’umanità, come gay: chi mai potrebbe discriminare
Leonardo da Vinci (1452-1519)?
8. «Fa’
che gli aggressori sembrino cattivi» (p. 189). Un
ottimo metodo consiste nell’accostare gli «intransigenti », per esempio,
ai nazionalsocialisti. Poiché intendono proporre agli attivisti
gay un metodo pratico, gli autori non trascurano d’inserire nella loro
opera un portfolio di manifesti pro-gay,
valutati in base alla loro aderenza agli «otto princìpi
pratici » (pp. 215-245).
Non mancano
neppure un’attenta analisi dei mass media per la scelta dei più efficaci
(pp. 200-204) e un piccolo manuale di fund raisingper il finanziamento delle campagne sui mezzi di comunicazione sociale
(pp. 262-270).
La messa in opera della «strategia » deve però affrontare
un notevole ostacolo: gli stessi gay, meglio: lo stile di vita gay. Questo stile di vita,
descritto da Kirk e Madsen come
amorale (p. 289), «narcisistico » (p. 297) e patologico (pp. 296- 297),
rischia di rendere gli attivisti testimonial
poco credibili per il messaggio normalizzante e rassicurante che si vuole
trasmettere. A questo scopo è accluso un «Codice di
autocontrollo sociale» (p. 360), che comprende «regole» (ibidem)
per le relazioni con gli eterosessuali, con altri gay e con sé stessi. Se ancora fosse possibile stupirsi a questo punto della
lettura, sarebbe il caso di farlo di fronte a questo «codice»: proibendo una
serie di condotte, esso costituisce l’ammissione degli stessi comportamenti che
si vogliono negare; per esempio, nell’elenco si trova «Non farò sesso in
pubblico» (ibidem), «Se sono un pedofilo o un masochista lo terrò
nascosto e starò lontano dalle parate del Gay Pride» (ibidem), «Non tradirò il mio compagno » (ibidem), «Smetterò
di tentare di essere perennemente un diciottenne e mi comporterò secondo la mia
età; non mi punirò perché non sono ciò che vorrei» (ibidem), «Non berrò più di due drink alcolici al giorno; non farò assolutamente uso di droghe» (ibidem),
e così via.
IV. Che dire di questa «strategia»? Ha trovato applicazione? Siamo forse nel pieno
dell’offensiva predisposta da Kirk e da Madsen? Si può osservare qualche coincidenza.
Nel 1993
l’ILGA, l’International Lesbian
& Gay Association, la più importante lobby gay
mondiale, che unisce più di 400 organizzazioni di 90 paesi in tutto il
mondo fra le quali l’Arcigay — la principale
organizzazione gay italiana, fondata a Bologna nel 1985 — espelle la NAMBLA,
la North American Man/Boy Love Association,
associazione che ha fra i suoi scopi la diffusione della pedofilia, dopo oltre dieci
anni di stretta collaborazione e nonostante il fatto che i rappresentanti della
NAMBLA avessero collaborato alla costituzione dell’ILGA (10). La NAMBLA
protesta pubblicamente ma la posizione dell’ILGA viene
«rafforzata» nel 1994 da un emendamento del Senato degli Stati Uniti d’America,
che subordina la prosecuzione dei finanziamenti statunitensi all’ONU,
l’Organizzazione delle Nazioni Unite, alla garanzia che «nessuna agenzia affiliata
alle Nazioni Unite garantisca alcuno status, accreditamento o riconoscimento
ufficiale a qualsiasi organizzazione che promuova, tolleri o cerchi la
legalizzazione della pedofilia, o che includa come consociate o membri una
qualunque di tali organizzazioni» (11). Quindi, per continuare a usufruire dei finanziamenti statunitensi, l’ONU minaccia
l’ILGA di espellerla dall’ECOSOC, l’Economic and
Social Council, se avesse mantenuto i rapporti con la
NAMBLA.
E Kirk e Madsen, affrontando
l’argomento delle affiliazioni controproducenti, citano proprio il caso della
NAMBLA: «[...] permettere
ai difensori della legalizzazione dell’amore fra uomini e ragazzi di
partecipare alle marce del Gay Pride è, dal punto di
vista delle pubbliche relazioni, un puro disastro» (p. 146; cfr. pure pp. 146-147, 184 e 306).
Qualcosa di
simile avviene anche in Italia. Il 13 luglio 1993 undici persone vengono arrestate a Milano con l’accusa di abusi sessuali su
minori; fra esse Francesco Vallini, redattore di Babilonia.
Mensile gay e lesbico — la rivista gay fondata
a Milano nel 1982 — e animatore del Gruppo P, un’associazione di pedofili.
Il presidente dell’Arcigay, on. Franco Grillini, invece di prendere le difese del redattore della maggiore
testata gay italiana, dichiara: «[...] bisogna essere masochisti, o non capire che chi
rivendica politicamente la pedofilia danneggia i movimenti di liberazione sessuale,
alimentando il pregiudizio popolare contro i gay» (12).
La redazione
di Babilonia. Mensile gay e lesbico risponde
denunciando come puramente strategico l’atteggiamento dell’Arcigay: «[...] siccome la pedofilia è
repellente, non bisogna difendere i gay pedofili ingiustamente accusati. Anzi, bisogna prendere le distanze, perché esprimere solidarietà
può “sporcare” l’immagine del movimento. Questa benedetta
immagine che è diventata tutto per l’Arcigay, a scapito della sostanza.
L’importante è la facciata. L’importante è apparire [...]. Ecco, il
botto è scoppiato per questa ragione: perché qualcuno, noi, ha rifiutato di
accontentarsi della sola politica di “immagine” e si è
ostinato a perseguire quella dei “fatti”. Il Gruppo P è solo un pretesto: il conflitto
è in realtà fra due modi di intendere la politica dei diritti civili» (13).
Dal canto loro, Kirk e Madsen
prevengono anche questa critica: «Sarà sollevata l’obiezione — e sarà sollevata
spesso — che noi vorremmo “ziotommizzare”
(14) la comuni-tà gay; che stiamo cambiando uno stereotipo falso
con un altro ugualmente falso; che i nostri messaggi sono bugie; che questo [l’icona
della normalità] non è il modo in cui tutti i gay attualmente
appaiono; i gay lo sanno e i bigotti lo sanno. Certo, ovviamente, anche
noi lo sappiamo. Ma non è importante se i nostri messaggi sono bugie; non per
noi, perché li stiamo usando per un effetto eticamente
buono, per opporci a stereotipi negativi che sono sempre un pochino falsi, e
molto di più malvagi; non per i bigotti, perché i messaggi avranno il loro
effetto su di loro sia che ci credano sia che non ci
credano» (p. 154).
Che
l’Arcigay persegua un piano strategico molto simile a quello
proposto da Madsen e da Kirk
è confermato da Giovanni Rossi Barilli, giornalista,
scrittore e militante gay: «Nell’epoca della tivù e del virtuale, con
un crescente predominio dell’apparire sull’essere, costruirsi una buona immagine pubblica era estremamente importante ed era
un obiettivo che l’Arcigay si mise a perseguire con determinazione. Grazie
soprattutto al metodico lavoro di Franco Grillini [...] l’associazione aveva
ben presente che uno dei suoi scopi fondamentali era far parlare di sé, avere
il massimo dell’attenzione da parte dei mezzi di informazione. Per dirla con
una formula destinata a grande successo, “essere
visibili”. [...]
«L’Arcigay,
nella rappresentazione dei mass media, è diventata la
portavoce quasi unica degli omosessuali italiani, la massima proiezione di
quello che altrove si chiama a buon diritto comunità gay» (15). A proposito di quest’ultima considerazione di Rossi Barilli,
si può osservare che Kirk e Madsen
pongono, per il perseguimento degli obiettivi prefissati, la seguente
condizione: «Vi dovrebbe essere soltanto una organizzazione
gay, riconosciuta come tale» (p. 249). È facile immaginare quali siano le conseguenze di questa scelta, per esempio, per gli
omosessuali che non condividono lo stile di vita gay i quali, infatti,
pur essendo la maggioranza, sono praticamente invisibili.
Questa
strategia è stata condotta attraverso campagne mirate, scelte accuratamente. Propongo
un esempio di bruciante attualità: «Si apre un pubblico dibattito sulle
unioni civili, che sempre più diventano la questione prioritaria nell’agenda dell’Arcigay.
E questo non accade perché migliaia di coppie omo scalmanate
diano l’assedio al quartier generale per poter
coronare il loro sogno d’amore. Anzi, il numero delle coppie disposte a impegnarsi per avere il riconoscimento legale è addirittura
trascurabile [...].
«Ma il punto vero è che le unioni civili sono un obiettivo
simbolico formidabile. Rappresentano infatti la
legittimazione dell’identità gay e lesbica attraverso una battaglia di libertà
come quelle sul divorzio o sull’aborto, che dispone di argomenti semplici e
convincenti: primo fra tutti la proclamazione di un modello normativo di omosessualità
risolto e rassicurante. Con la torta nel forno e le tendine
alle finestre, come l’ha definito una voce maligna. Il messaggio è più o meno il seguente: i gay non sono individui soli,
meschini e nevrotici, ma persone splendide, affidabili ed equilibrate, tanto
responsabili da desiderare di mettere su famiglia. Con questo look “affettivo” non esente da rischi di perbenismo si fa
appello ai sentimenti più profondi della nazione e si vede a portata di mano il
traguardo della normalità. [...] A questa porta si bussa con discrezione, assicurando
che non si vuole assolutamente il matrimonio omosessuale: questa prospettiva fa
inorridire gli stessi gay. E
nemmeno si rivendica la possibilità di adottare figli per le coppie omo, perché
i tempi non sono maturi. Ci si accontenterebbe di regolare la questione dell’eredità,
della pensione, dell’affitto, della reciproca assistenza fra i partner» (16).
Kirk e Madsen, che consigliano l’utilizzo strategico dell’argomento delle
unioni gay, sottolineano il modo più efficace per presentare il
messaggio: «Noi non stiamo combattendo per sradicare la Famiglia:
stiamo combattendo per il diritto a essere Famiglia»
(p. 380).
V. Che dire? È davvero folkloristico
il parlare di una lobby gay? È frutto di complottismo paranoico pensare a
una strategia messa in atto dal movimento gay? Oppure After the ball. How
1994) — il
rivoluzionario ci avvisa che la vera rivoluzione sarà la rivoluzione di domani»
(17). E Kirk e Madsen confermano:
«For, you see, the ball is over. [...] Tomorrow, the real gay revolution begins», «Come vedi, il ballo è finito. [...]
Domani inizia la vera rivoluzione gay» (ibidem).
Roberto
Marchesini
(1) Cfr. JOSEPH NICOLOSI, Omosessualità maschile: un nuovo
approccio, trad. it., con Presentazione di
Chiara Atzori e Postfazione di Livio Fanzaga S.P.,
Sugarco, Milano 2002, pp. 15-17 (recensione di Bruto Maria Bruti, in Cristianità, anno XXXII, n. 321,
gennaio febbraio 2004, pp. 18-22).
(2) Cfr. MARSHALL KIRK e
HUNTER MADSEN, After the ball. How America will conquer its fear &
hatred of Gays in the 90’s, Plume,
(3) Cfr. il riferimento al marxismo del movimento gay italiano,
in GIANNI ROSSI BARILLI, Il movimento gay in Italia, Feltrinelli,
Milano 1999; e in MARIO MIELI, Elementi di critica omosessuale, a cura
di G. Rossi Barilli e Paola Mieli, Feltrinelli, Milano 2002.
(4) Cfr. la teoria della «desensibilizzazione
sistematica», in JOSEPH WOLPE (1915-1997), Psychotherapy
by reciprocal inhibition, Stanford University
Press, Stanford (California) 1958; cfr. pure PIO SCILLIGO, La psicoterapia: Storia,
modelli, orientamenti e tendenze moderne, in Psicologia Psicoterapia e
Salute, vol. 2, n. 1, Roma 1996, pp. 1-34.
(5) Cfr. LEON FESTINGER, Teoria della dissonanza cognitiva,
trad. it., con Prefazione di Gustavo Iacono,
Franco Angeli, Milano 2001.
(6) Cfr. il mio Il feticcio (omosessuale) dell’omofobia,
in Studi Cattolici. Mensile di studi e attualità, anno XLIX, n. 528,
Milano febbraio 2005, pp. 112-116.
(7) Cfr. Omosessualismo:
nuova ondata di propaganda nei mass-media, in Corrispondenza Romana,
n. 880, Roma 27-11-2004, p. 1.
(8) Cfr., per esempio, JEANNINE GRAMICK S.S. N.D. e ROBERT
NUGENTM S.D.S., Anime gay. Gli omosessuali e la
Chiesa cattolica, trad. it. a cura di Andrea Ambrogetti, Editori Riuniti,
Roma 2003;
sui due autori, cfr. sui due autori, cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Notificazione
riguardante Suor Jeannine Gramick,
SSND, e Padre Robert Nugent,
SDS., Roma 31 maggio 1999, in L’Osservatore Romano, Città del
Vaticano 14-7-1999; cfr. pure DOMENICO PEZZINI, Le
mani del vasaio. Un figlio omosessuale: che fare?, prefazione di Giannino Piana,
Ancora, Milano 2004, su cui cfr. il mio Omosessualità,
un libro equivoco per un problema serio, ne il Timone. Mensile di
informazione e formazione apologetica, anno VI, n. 38, Fagnano
Olona (Varese) dicembre 2004, p. 10.
(9) Cfr. J. NICOLOSI, Omosessualità maschile: un nuovo
approccio, cit.; IDEM e LINDA AMES NICOLOSI, Omosessualità.
Una guida per i genitori, trad. it., con Presentazione
di C. Atzori, Milano, Sugarco
2003; GERARD VAN DEN AARDWEG, Omosessualità e speranza. Terapia & guarigione
nell’esperienza di uno psicologo, trad. it., con Introduzione
di Paul C. Vitz, Ares, Milano 1995; IDEM, Una strada per il domani, guida
all’(auto)terapia dell’omosessualità, trad. it.,
Città Nuova, Roma 2004; B. M. BRUTI, Omosessualità: vizio o programmazione
biologica?, in Cristianità, anno XXIII, n. 243- 244, luglio-agosto
1995, pp. 5-12; e IDEM, Domande e risposte sul problema dell’omosessualità,
ibid., anno XXX, n. 314, novembre dicembre 2002,
pp. 7-24.
(10) Cfr. <http://groups.google.it/groups?q=ilga+nambla&hl=it&lr=&selm
=2icgo2%24t6%40panix2.panix. com&rnum=2>, visitato il 28 febbraio 2005.
(11) Cfr. 103d Congress, 2d
Session,
(12) FRANCO
GRILLINI, Intervista a Il Giorno, cit. in G. ROSSI BARILLI, op. cit., p. 217.
(13) Via
la maschera, in Babilonia. Mensile gay e lesbico,
n. 115, Milano ottobre 1993, cit. in G. ROSSI BARILLI, op. cit., p. 217.
(14) Il
riferimento è al protagonista del romanzo La capanna dello zio Tom, del 1852, opera della scrittrice statunitense Harriet Beecher Stowe (1811-1896), in cui lo zio Tom
viene descritto come uno schiavo sottomesso ai padroni, dei quali cerca
d’imitare i comportamenti al fine di soddisfarne i desideri: HARRIET BEECHER
STOWE, La capanna dello zio Tom, trad. it., con Introduzione di Vito Amoroso, Rizzoli, Milano 2001.
(15) G.
ROSSI BARILLI, op. cit., pp. 161-162.
(16) Ibid., p. 212; cfr.
pure TFP COMMITEE ON AMERICAN ISSUES, Defending A Higher Law. Why We Must
Resist Same-Sex «Marriage» and the Homosexual Movement, The American Society
for the Defense of Tradition, Family and Property,
Spring Grove (
(17) NICOLÁS
GÓMEZ DÁVILA, In margine a un testo implicito, trad. it.,
a cura e con una postfazione, Un angelo prigioniero nel tempo, di Franco
Volpi, Adelphi, Milano 2001, p. 18.